Il vagabondo - new


Gustavo era un uomo strano.  Per lui la vita era una meravigliosa avventura anche se non aveva nulla di così buono da farla apparire tale ai nostri occhi: era solo, senza casa, senza averi, non possedeva che se stesso e questa sua vita che  andava

consumando  giorno dopo giorno.

Aveva niente per cui lottare, niente da perdere, tutto da godere

come il risveglio della natura a primavera con le serate tiepide,  le notti stellate, il canto dei grilli, il cinguettio degli uccelli, la loro ricerca di fili d’erba secchi per fare il nido,( che raccolgono nel becco come piccole fascine dal giusto peso perché non li limitino nel volo), il dischiudersi delle tane delle talpe e vedere i musetti appuntiti annusare l’aria come a chiedere: - E’ già primavera?-

Vedere lo schiudersi dei primi fiori gialli nei prati; l’aprirsi delle gemme sui cespugli lungo i viottoli e i fossati; il crescere veloce, inverosimilmente appariscente, delle foglie sui rami; l’apparire  improvviso dei boccioli dei fiori e il loro dischiudersi, come per magia, a mostrare tutta la bellezza delle corolle e la spettacolarità dei colori.

Fiori grandi e piccoli, anche piccolissimi, tutti gioielli d’oreficeria che stupiscono  per le loro forme perfette.

Sublime realtà di vita non aver altra ricchezza che se stessi, la propria capacità di vedere, di sentire, di amare e di godere di tutto ciò che ti circonda.

Gustavo aveva la piena coscienza d’essere un privilegiato: era un uomo libero. Era libero nelle scelte, libero dalla competitività, libero dalla schiavitù del possesso…

Aveva sul viso una lunga barba ispida e folta, era, diceva, la sua tendina, il paravento alla sua identità: dietro alla barba c’era l’uomo e quell’uomo era “ privato”.

Gli altri?… Ma chi?…

Gustavo non era sempre stato così, anche lui aveva avuto dei legami familiari, una professione e una fissa dimora.

Terzo dei cinque figli di Gaspare Giobotti, Medico in Perugia, era stato un figlio affettuoso, uno studente diligente, un laureato a pieni voti. Nella sua giovinezza c’era stato anche l’amore per una dolce compagna di corso all’università di Pisa, si chiamava Ornella.

La Laurea in Lettere Antiche aprì a Gustavo le porte dell’insegnamento. Credeva di aver trovato la sua strada, ma non fu così. Non era facile, per lui, dare ai giovani allievi un insegnamento che fosse valido anche per affrontare la vita. Oltre alla traduzione di testi greci e latini che cosa poteva insegnare lui a

quei giovani che lo ascoltavano fiduciosi?

Troppa responsabilità, troppa difficoltà ad essere onesti senza urtare la morale comune, anche con i colleghi troppi personalismi con cui misurarsi… Da qui, la crisi.

Dapprima fu una crisi mistica: - Noi viviamo per Dio e per tornare a Lui che è il Sommo Bene.- disse un giorno ad Ornella.

_ Forse, in un certo senso, ma io credo che Dio ci abbia dato la vita perché se ne godano tutti gli aspetti, Anche l’amore verso un altro essere umano è voluto da Dio.- gli rispose lei.

_ No, non c’è possibilità di vero amore nella materializzazione del sentimento.- affermò Gustavo senza che la ragazza potesse replicare.

Ornella capì che accanto a lui non ci sarebbe stato posto per lei e lo lasciò a se stesso.

_ Figliolo, le porte della casa del Signore sono sempre aperte per un’anima che bussa.- gli disse Padre Marco, il francescano a cui il giovane si era rivolto.

_ Grazie, vorrei proprio essere accolto fra voi: sento che la mia vita potrebbe avere un senso solo fra gli eletti del Signore,-

Così, Gustavo, sperimentò la vita monastica: preghiera, lavoro alla traduzione dei testi antichi, meditazione e una Regola ferrea da dover rispettare.

Anche lì, come ovunque, intrighi, invidie e gelosie: anche vestito di saio un uomo resta sempre un uomo con tutto il bagaglio d’imperfezioni che lo caratterizzano.

Via anche il saio, via anche da questa realtà fatta d'arrivismi e di meschinità umane.

_ Solamente l’uomo solo con se stesso può misurare se stesso. –Questa  era  la convinzione che Gustavo aveva maturato.

Ora era fuori, nel mondo, senza null’altro che la sua coscienza di essere figlio di Dio come tutto il Creato di cui si sentiva parte integrante e, al tempo stesso di goderne il possesso: si sentiva ricco.

Vagabondava senza meta. In cambio di un piatto di minestra faceva piccoli lavori nelle cascine disseminate lungo il suo peregrinare. Si sfamava quasi esclusivamente di frutta e verdura.

Girava ben lontano dalle città e dai paesi: lì, l’uomo era della peggiore specie, lo riteneva fagocitato da una forma di vita che lui disprezzava: erano tutti robot caricati dalla molla del profitto economico.

- Gustavo, ancora, raccontaci ancora le belle storie degli antichi romani.-  gli chiedevano insistentemente i bambini  dei casolari in cui sovente si fermava,  e lui, paziente, ricominciava a narrare di

guerre, di uomini forti, di uomini stupidi perché si credevano forti, di uomini saggi che ricercavano il perché della vita,  di donne virtuose, di madri coraggiose.

_ Tu che conosci il Latino, aiutami a fare questa traduzione.- Gli veniva chiesto. E lui dava per il piacere di dare e viveva per il piacere di vivere.

Ripercorreva sovente gli stessi sentieri, vedeva quei bimbi crescere, divenire ragazzi e poi adulti a loro volta padri e madri di altri bimbi.  Tutti avevano imparato ad amare questo barbone che

sapeva tante cose, che raccontava tanto bene, che non chiedeva niente altro che un poco di cibo, e che donava la testimonianza  della sua grande serenità.

Nessuno sapeva da dove venisse e dove andasse; nessuno osava chiedere che cosa nascondesse la lunga e folta barba ormai bianca. Solo gli occhi erano singolari: guardavano con infinita dolcezza.

Nei freddi inverni trovava riparo nel caldo delle stalle. Spesso gli abitanti della cascina gli si facevano intorno e discorrevano con lui; le donne lavoravano a maglia e gli uomini, fumando, raccontavano di occasioni sfumate e di sogni sognati. A Gustavo, però, piaceva restare solo con le bestie che, ruminando, davano ritmo al tempo che passava. Le bestie erano senza pensieri e senza perché, chi era più felice di loro?…Sarà poi vero che le bestie sono felici?

Gli autunni interminabili, con le lunghe notti piovose, non piacevano al nostro Gustavo: il picchiettio dell’acqua su i vecchi coppi del tetto e il fischiare del vento fra gli infissi, musicavano la

struggente tristezza di un paventato crepuscolo.

Non amava l’autunno, ma lo accettava. Anche questo era parte della sua serenità  data dall’impossibile, dalla lunga gioia del niente, dal piacere di lasciarsi vivere all’unisono con le stagioni

. “VIVERE” era la sua preghiera a Dio.

Durante l’estate, amava tuffarsi fra le onde del mare e abbandonarsi poi sulla sabbia della risacca a sentire l’acqua lambire il suo corpo nudo con la pelle scottata dal sole.

Non mangiava pesci: anche loro erano creature nate per vivere.

A volte capitava nei pressi di spiagge affollate e ben organizzate; si fermava incuriosito a guardare quel carosello di colori, di vanificate illusioni, di presunzioni, d’egoismi e d’insoddisfazioni.

Il confronto,  il sorpasso e la meschinità stendevano le loro carni al sole. Più scuro sarà, alla fine, il colore della pelle e più appariscente sarà la vacanza. Vacanza che non sarà più “vacanza,” ma “lavoro” perché la competizione affatica.

Un mattino Gustavo si svegliò percorso da un gran tremito. Si sentiva male: un dolore al petto non gli permetteva di respirare,  si trovava nel fienile dei Civelli. Era autunno inoltrato e pioveva a dirotto, attorno, la campagna della Bassa Padana era di un cupo grigiore. Fu verso le dieci che la vecchia Civelli lo vide ancora lì tremante e lamentoso. Chiamò il figlio e portarono Gustavo all’ospedale.

Per la prima volta dopo molti anni l’uomo si ritrovò in un letto.

_ E’ un po’ scomodo – disse all’infermiera che lo stava aiutando. Il medico gli riscontrò una brutta polmonite.

Fu la comprensione della Caposala che lo aiutò a superare gli

immaginabili disagi di quella che lui definiva “necessaria prigionia”. Si rendeva ben conto che la salute del suo corpo era un grande valore e che solo in questo risiedeva la sua libertà.

Gli anni passano, il susseguirsi delle stagioni dona al tempo una dimensione e all’uomo l’invecchiamento.

Gustavo era ritornato alla sua vita randagia, dopo il triste episodio della  lunga malattia. Non aveva più contato le estati trascorse,

si sentiva vecchio, si vedeva vecchio: era stanco.  Non era stanco di vivere, anzi, quel suo contatto con la natura gli procurava sempre nuove gioie, nuovi entusiasmi, nuove scoperte, nuovi insegnamenti, ma erano stanche le sue gambe che si rifiutavano di reggerlo nelle lunghe camminate.

Da diverso tempo, ormai, non riusciva a risalire le scale a pioli dei fienili e nelle stalle poggiava  lo sgabello negli angoli perché le due pareti lo sorreggessero. Era vecchio, ormai, era troppo vecchio…

_ Che mi succede, perché vedo me stesso lì sdraiato e inerme sopra i sacchi vuoti del mugnaio?… Il mio viso è pallido… è solo sporco di farina?… Che luce… Papà….Mamma…Voi qui?…Sì, vengo, vengo con voi, ma che luce…DIO!!!

Il mugnaio lo trovò così, raggomitolato sopra i sacchi, con l’espressione del viso  quasi sorridente. Chiamò gente.

_ E’ morto, poveretto; chissà chi era?-

_ Aveva chiesto asilo per la notte…..-

_ Poverino, chissà se avrà sofferto.-

_ No, non credo, vedi l’espressione del viso?-

_Papà, com'è sporco!-

_ Era un vagabondo…un barbone…-

 


Nada Reale